L’Italia chiamò. E lo fa con un altro, netto, 3-0. Dopo la Turchia, è la Svizzera a soccombere dinanzi allo strapotere azzurro. La Nazionale di Roberto Mancini non può e non deve essere annoverata tra le sorprese dell’iridata competizione continentale: siamo di fronte a una certezza, da qualunque parte la si guardi e la si analizzi. La matematica qualificazione agli ottavi di finale dell’Europeo è solo il primo passo di una strada imboccata da ormai tre anni: un lavoro minuzioso e di ricostruzione dalle fondamenta operato da Mancini e il suo staff, capaci non solo di riportare l’Italia nell’élite del calcio europeo ma anche di rianimare un ambiente dominato dal catastrofismo del regno Ventura.
Sono molteplici gli aspetti che autorizzano a sognare, per davvero, un successo continentale. Al primo posto non possiamo non far riferimento alla componente gruppo: chimica di squadra consolidata negli anni che verte tutta in un’unica direzione possibile, quella del successo. Collettivo e spirito di sacrificio anteposti alle individualità, alle giocate funamboliche del singolo, alle bizze di istrionici interpreti. Sembrano lontani anni luce i battibecchi di Balotelli con i senatori dello spogliatoio al Mondiale brasiliano del 2014 o le “cassanate” a Euro 2004 in Portogallo. L’Italia di Mancini è disciplina, attenzione al dettaglio. Sul campo o tra gli armadietti di Coverciano le differenze si annullano. La professionalità ha sempre la meglio, anche sul talento.
Capitolo gioco: ammettiamolo. Vedere l’Italia in campo è uno spettacolo per occhi – e palati – fini. È anche esercizio di disarmante difficoltà paragonare, o quantomeno associare come livello di gioco, l’attuale versione degli Azzurri all’Italia di Bearzot, di Sacchi, di Trapattoni o Lippi. L’undici azzurro che ieri sera ha annichilito la Svizzera è un inno all’aggressività, al pressing asfissiante, al cinismo. L’Italia che gioca un calcio a uno, due tocchi, è una novità dettata dalle esperienze all’estero di Mancini con le squadre di club e frutto dello spessore tecnico degli interpreti a disposizione: uno su tutti Manuel Locatelli, protagonista della magica serata dell’Olimpico.
Non è un caso che club di primissima fascia in Europa abbiano bussato alla porta del Sassuolo per assicurarsi le prestazioni della mezz’ala ex Milan. Capacità di inserimento, corsa, tecnica da vendere: De Zerbi più Sassuolo docet. Non ce ne voglia il vecchio e buon “catenaccio” all’italiana (quattro Mondiali e un Europeo non rappresentano un bottino tanto infausto, ndr) ma l’impronta tattica di Mancini può davvero lasciare il segno nel medio-lungo periodo.
Capitolo carattere e cinismo. Rispettivamente Nicolò Barella e Ciro Immobile. Se il centrocampista dell’Inter conferma di essere calciatore totale e imprescindibile per l’impressionante capacità di occupare con profitto ogni zona di campo unita a una condizione fisica invidiabile, la vera nota lieta arriva dal reparto offensivo: Immobile si è finalmente sbloccato. L’unico dubbio di una selezione azzurra solida in difesa e arcigna nella metà campo coincideva con la mancanza di una prima punta di peso e, al contempo, prolifica.
Con il terzo gol alla Svizzera (complice un Sommer non proprio impeccabile) aumenta a dismisura la consapevolezza nei propri mezzi di un attaccante che in maglia azzurra non aveva confermato le clamorose medie realizzative in maglia biancoceleste. Ora che il tabù è sfatato (due i gol per Ciro in due match disputati) è davvero lecito sognare. Domenica sera, ancora a Roma, l’incrocio con il Galles dirà tutto sul possibile cammino che attende l’Italia. Una strada al cui epilogo si erge un sogno a tinte british chiamato Wembley.