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Fabrizio Moro: “Fare dischi? Un martirio. Oggi il sistema musicale vomita troppe canzoni”

di Redazione
14 Novembre 2025
in Musica
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(Adnkronos) – Per Fabrizio Moro fare dischi è da sempre una prova di resistenza fisica. Un atto d’amore e di dolore insieme. “E’ un martirio” ammette lui senza troppi giri di parole all’AdnKronos. E nel suo nuovo album ‘Non ho paura di niente’ (Bmg), lo si sente tutto: il cuore, il fegato, e quel disagio di chi, come lui, vuole spingersi oltre la superficie. Il disco del cantautore romano, 50 anni, arriva a due anni e mezzo dal suo ultimo lavoro ed esce oggi solo in formato fisico (Cd, vinile, vinile deluxe green petrol numerato). Un gesto controcorrente, in un tempo in cui tutto corre veloce. Nove brani intensi, prodotti da Katoo, introspettivi e attuali. 

“La musica non mi dava più emozioni” hai detto, parlando di un disco “sofferto”. Cosa intendevi dire?  

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“Io credo che ogni disco che ho scritto e prodotto sia stato sofferto, ma sofferto veramente, non lo metto neanche tra virgolette. Perché andare a carpire le cose migliori dal punto di vista musicale che fluttuano dentro di te non è semplice. È sempre stata una grande prova fare un album per me. Non ho mai seguito esigenze di mercato, lo dimostrano anche i tempi che passano tra un disco e l’altro. Ogni volta comincio a scavare dentro, dormo male finché non trovo le rime giuste, l’argomento, il titolo, e produco il pezzo. È un martirio, e ogni volta è stato così. Col tempo tutto si appesantisce: quando fai i primi dischi sei più istintivo, con l’età diventi più riflessivo, e fare qualcosa che aggrada la tua anima diventa più complicato”. 

L’album nasce in un periodo particolare. Quanto ha inciso il contesto degli ultimi anni?  

“La fase di scrittura di questo album va dal post-Covid fino all’anno scorso, e non è stato un periodo felice. Ho vissuto il cambiamento epocale del sistema musicale con molta sofferenza. La mia generazione, quella dei cantautori di mezzo – né vecchi né troppo giovani – è quella che ha sofferto di più. Siamo nati con un sistema e ci siamo dovuti adattare a un altro. Oggi il sistema musicale vomita canzoni ogni giorno: quando è uscito il singolo ‘Non ho paura di niente’, nello stesso giorno sono state pubblicate cinquanta canzoni. Quando ho iniziato, i filtri erano più selettivi: dal direttore artistico al direttore radiofonico, tutto aveva confini precisi”. 

Hai deciso di pubblicare solo in formato fisico. Una scelta controcorrente.  

“Ci sono altri artisti che l’hanno fatto prima, come Niccolò Fabi o Francesco Guccini. Io credo che bisogna dare un po’ di peso specifico a tutto questo mal di fegato che provi quando scrivi un album. Scrivere e produrre un disco comporta lavoro, sofferenza, concentrazione, aspettative. Quando arriva il pacchetto finito lo prendi e lo regali, perché con gli abbonamenti alle piattaforme di fatto lo regaliamo. Non è una cosa bella, secondo me: va dato un valore al lavoro che c’è dietro a un album, mio e di chi lavora nella produzione”. 

Credi che si la formula migliore per invertire la tendenza?  

“Credo che sia giusto così. Dovrebbero iniziare a farlo i grandi, forse cambierebbe qualcosa. Magari i ragazzi tornerebbero a comprare il giradischi e a dare un valore diverso alla musica, perché il valore che si dà oggi non è quello degli anni ’80 o ’90”.  

Una volta si comprava un disco anche a scatola chiusa.  

“Il sabato era per me il giorno della musica, ascoltavo dischi, suonavo la chitarra. Si creava un’atmosfera attorno a un album che era magica. Avevo 13 anni, andavo nel negozio di dischi e il commesso mi diceva ‘prova questo, viene dall’America. Loro si chiamano Guns N’ Roses’. E’ vero, c’era la pirateria ma la musica aveva un valore fondamentale. Io attraverso la musica ho imparato più cose che a scuola: studiavo i cantautori, i testi, e lì dentro c’era la vita. Era un valore rivoluzionario, politico e sociale”. 

E tu pensi se abbia ancora senso oggi mandare un messaggio sociale tramite le canzoni, anche ai giovani che spesso ascoltano generi che vanno da tutt’altra parte?  

“Sì, ma il problema sono i filtri. Non è colpa dei giovani, è colpa dei media. I giovani si ritrovano immersi in uno scenario arrivato a un punto di non ritorno. I filtri dovrebbero dare più spazio a certi passaggi musicali e meno ad altri”. 

In ‘Sabato’ racconti il dialogo tra il Moro ventenne e quello di oggi, anche attraverso tuo figlio. Com’è questo dialogo tra generazioni?  

“Sono un padre molto giovane e sto a contatto ogni giorno con i miei ragazzi. Capisco le paure che aveva mio padre nei miei confronti, anche se la mia adolescenza era diversa da quella di mio figlio. Ora lui inizia ad assaporare la libertà, ha 17 anni e crede di essere un uomo indipendente. Parla poco, come la maggior parte degli adolescenti, ma attraverso gesti e sguardi capisco cosa vuole comunicare. Mettere in pratica il mestiere di padre è complicato, forse è l’unica cosa che oggi mi spaventa un po’”. 

Hai paura per lui?  

“Sì, ho paura della curiosità che si può avere nei confronti di un certo tipo di sballo e di vita. Spero che mio figlio non abbia preso da me, io ero molto curioso, magari non mi avventuravo e non mi azzardavo in determinate circostanze, però ero molto curioso, ero uno a cui piaceva divertirsi. Oggi, invece, sono molto più attento da padre, anche perché la questione della droga è cambiata. Alcuni ne parlano come se fosse una cosa figa, bella, ma la droga in realtà è una merda. Chi l’ha vissuta davvero può solo dirtelo così. È l’esperienza più brutta che un essere umano possa fare, se ne esce vivo e non troppo ammaccato. Spingere i ragazzi a quelle scelte perché “fa figo” è da pezzi di me… secondo me”. 

Sanremo è stato un punto di svolta per la tua carriera. Che ruolo ha oggi?  

“Nonostante siano cambiati i colori e le luci, oggi c’è più spettacolo e meno tradizione, resta un palco importantissimo, soprattutto per i giovani musicisti e cantautori. È ancora il palco più importante d’Italia”. 

Il tour ‘Non ho paura di niente Live 2026’ partirà con un’anteprima al Palazzo dello Sport di Roma, hai già pensato a come intrecciare i nuovi brani con i tuoi classici a come sarà?  

“Quando scrivo un disco penso sempre al live. Durante la produzione mi riunisco con i musicisti, che sono gli stessi da vent’anni, e immaginiamo le facce sotto al palco. Un riff nasce anche da lì: da come vogliamo aprire o chiudere il concerto. Ogni album l’ho registrato pensando alla risposta del pubblico, non all’ascolto casalingo”. 

Oltre venticinque anni di carriera: sarà una festa?  

“Ogni concerto per me è speciale, non lo dico per circostanza. Oggi qualsiasi disco si fa esclusivamente per suonare dal vivo. È rimasta quella la parte più bella di questo mestiere”. (di Federica Mochi) 

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