“Alpha Zulu” è l’attesissimo nuovo album di inediti dell’acclamata band francese Phoenix vincitrice di un Grammy.
Prodotto dalla band stessa e registrato al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, che si trova al Palais du Louvre, “Alpha Zulu” è tutto ciò che i Phoenixsanno fare al meglio: melodie accattivanti e disinvolte accompagnate da una produzione sempre innovativa, che hanno dato vita a ciò che è destinato a diventare uno degli album del 2022.
In effetti “Alpha Zulu” – il primo album della band dopo l’acclamato disco del 2017 “Ti Amo” – ci ricorda immediatamente ciò che ha reso i Phoenix una delle band più amate degli ultimi due decenni, un’ulteriore testimonianza della duratura influenza che la band ha avuto, e continua ad avere, sulla cultura pop.
Come documentato nel loro libro del 2019, “Liberté, Egalité, Phoenix”, Thomas Mars (voce), Christian Mazzalai (chitarre), Laurent “Branco” Brancowitz (chitarre, tastiere) e Deck d’Arcy (basso) sono stati come una famiglia. Il libro si conclude con Branco che afferma che per la prima volta nella loro esistenza – uno che ha prodotto alcuni degli album pop-rock più elegantemente concettuali del secolo – lui e i suoi fratelli avrebbero voluto provare a intraprendere “la via di minor resistenza” e vedere dove li avrebbe portati.
Quando a causa della pandemia si sono dovuti allontanare, nella primavera del 2020, sapevano che difficilmente si sarebbero visti di lì a breve. I Phoenix non erano abituati a lavorare singolarmente a nuova musica per cui in quei mesi di allontanamento non hanno prodotto nuove idee. Quando però sono stati finalmente in grado di rivedersi e riunirsi, mesi dopo, “eravamo quasi in trance”, ha affermato Christian. Oltre a questa nuova sensazione quasi ultraterrena, è arrivata l’opportunità di un nuovo incredibile luogo di registrazione. “Abbiamo pensato che sarebbe stata un’avventura fantastica creare qualcosa dal nulla in un museo”, ha detto Branco. “E così con la pandemia abbiamo potuto vivere esattamente questa situazione, essere soli in un museo vuoto”.
Durante il lockdown potevano accedere al museo solo attraverso una porta piuttosto distante che li costringeva a una passeggiata di 10 minuti attraverso stanze buie e vuote, piene di storia e di arte. Le torce del loro telefono illuminavano statue drappeggiate, quadri e anche il trono d’oro di Napoleone. “Avevo un po’ paura che creare qualcosa potesse essere difficile con tutta quella bellezza intorno a noi”, ha affermato Christian. “Ma era il contrario: non potevamo smettere di produrre musica. In questi primi 10 giorni abbiamo scritto quasi tutto l’album”.
In questa occasione hanno navigato da soli in questa esplosione di creatività, guidati dallo spirito del compianto Philippe Zdar, il loro più profondo collaboratore e amico, scomparso nel 2019. “Abbiamo perso molto”, ha detto Christiam di Zdar, un bon vivant, il loro spirito guida nell’album di svolta “Wolfgang Amadeus Phoenix”. “Ci sono stati molti momenti in cui abbiamo potuto sentire le sue idee. Jeté, è una parola che direbbe, quando lanci qualcosa molto velocemente”.
In effetti, si nota una nuova scioltezza qui per i Phoenix, un incontro di emozioni, stili ed epoche nato dal folle incubatore stilistico che è stato il Musée des Arts Décoratifs: “The Only One”, con le sue percussioni rain-drop, si scontra con “All Eyes on Me” violenta, quasi una techno-mitragliata; c’è un focus sullo “spazio negativo” – un concetto molto zdarian che riecheggia nelle pareti bianche del museo – e un senso di puro romanticismo, sebbene sfumato con una matura comprensione di quanto preziosa diventi quella sensazione con il passare degli anni. “My Elixir” una canzone solitaria e distante con un ritmo dolcemente brioso che ha tutta l’aria del karaoke cantato in un bar vuoto. “Tell me anywhere is home,” Thomas supplica: “Can we go home?”. Stava pensando a come in “Ti Amo”, i Phoenix riescano finalmente a dire “I love you” – “ma in una lingua diversa”, ha ammesso.
Vivendo ora in una situazione che assomiglia a uno scenario apocalittico americano, la situazione richiedeva immediatezza. Fu allora che Thomas scrisse l’unica canzone dell’album che non era stata composta in studio. I suoi compagni di band gli hanno inviato un lungo loop senza ritornello e gli hanno chiesto di registrare un flusso di coscienza. Il risultato è la traccia di spicco dell’album, “Winter Solstice” che potrebbe essere la canzone più triste dei Phoenix, che pulsa gradualmente dall’oscurità alla luce. “Turn the lights on / Find me a narrative / Something positive / This requiem played a few times before”, canta Thomas.
Lavorare al Musée ha in un certo senso portato i Phoenix al punto di partenza. Da ragazzini cresciuti a Versailles, si erano ribellati all’opprimente classicismo francese intorno a cui erano cresciuti: l’idea che la cultura appartenesse a un museo. Eppure, ecco quattro dei più importanti ambasciatori culturali di Francia, che fanno il loro prossimo lavoro in uno spazio del genere. E la cosa ha funzionato perfettamente: lontano dalle mostre al Musée des Arts Décoratifs, il loro studio è diventato uno spazio di contenimento per un miscuglio di opere: Dalí accanto a pezzi medievali e sculture di Lalanne. “Il backstage del museo è come un mashup”, ha detto Deck. “È molto pop in un certo senso, come il modo in cui facciamo musica”.
Il 16 novembre partirà il tour europeo dei Phoenix. Un’esperienza, il live della band, assolutamente da non perdere: un’esplosione di pura energia e colori sostenuta da una produzione eccelsa di livello superiore, portando live i cavalli di battaglia del loro repertorio e i nuovi brani in arrivo.
Il tour farà tappa anche in Italia, il 18 novembre all’Alcatraz di Milano, i biglietti sono disponibili sul sito della band.
