The House: un gioco di simboli che esplora il concetto di casa

Su Netflix il film d’animazione prodotto dai Nexus Studios, un viaggio surreale e inquietante alla scoperta di un simbolo potente, “la casa”, in cui perdersi e, forse, ritrovare se stessi

“The House”. 2° episodio, “Perduta è la verità che non si può vincere”

“The House”. 2° episodio, “Perduta è la verità che non si può vincere”

Tre storie, tre epoche diverse e, a collegarle l’una all’altra, la casa che svolge un ruolo fondamentale e ineluttabile nelle vite di chi la abita: è un piccolo gioiello di animazione a passo uno (stop motion) “The House”, disponibile su Netflix dal 14 gennaio, ed è un’opera complessa, difficile da etichettare sotto un unico genere; le fonti d’ispirazione, letterarie e cinematografiche, sono innumerevoli e lo sceneggiatore Enda Walsh, così come i diversi registi coinvolti, sembrano aver voluto giocare con il pubblico, sfidandolo a cogliere suggestioni sempre nuove, tanta è la ricchezza di significati del film.

Il primo episodio, dal titolo “E dentro di me si intesse una menzogna”, vede alla regia il duo belga Emma De Swaef & Marc James Roels e racconta le origini della casa che dà il titolo al film. Nell’Inghilterra del 19° secolo Raymond, che vive con la sua famiglia in un modesto cottage di campagna, medita una rivalsa nei confronti dei ricchi parenti; dopo un misterioso incontro notturno nel bosco, l’uomo accetta di ricevere in dono dal famoso architetto Van Schoonbeek una meravigliosa casa, a patto di abbandonare il suo piccolo cottage insieme alla moglie Penny e alle figlie Mabel e Isobel. La nuova dimora, tuttavia, appare animata da presenze perturbanti, che paiono assorbire completamente Raymond e Penny, mentre la piccola Mabel tenta disperatamente di ricondurre i genitori alla ragione. Il patto stipulato con Van Schoonbeek assume dei contorni faustiani (J.W. Goethe pubblicò il Faust proprio tra 18° e 19° secolo) e la casa si svela come entità viva, mutevole, “non finita”. La mescolanza di fonti d’ispirazione (il romanzo gotico inglese, Edgar Allan Poe, ma anche il film The Others di Alejandro Amenábar) ben si percepisce nella caratterizzazione dei personaggi, nei costumi e nelle scenografie, che giocano sull’accostamento di elementi discordanti: la lana cardata con cui sono realizzati i pupazzi animati appare morbida e ruvida insieme; gli abiti, semplici nei loro toni pastello, si trasformano in grotteschi costumi e la casa, un’imponente e lussuosa dimora vittoriana, nasconde anfratti bui e cadenti, con una distorsione dello spazio paradossale che ricorda l’opera di M.C. Escher.

Il secondo episodio, intitolato “Perduta è la verità che non si può vincere”, è diretto dalla regista svedese Niki Lindroth von Bahr ed è ambientato in una città dei giorni nostri; il protagonista ha le fattezze di un topo e appare immediatamente come un personaggio sull’orlo di una crisi, caratterizzato dalle nevrosi tipiche dell’uomo moderno, stressato dal lavoro, dalle preoccupazioni finanziarie e da un rapporto amoroso trascurato per inseguire il benessere economico. Ha ristrutturato la casa, l’ha arredata affinché possa essere uno status symbol per gli eventuali compratori ed è pronto a metterla in vendita; i preparativi tuttavia vengono sconvolti da un’invasione di insetti, che infestano le fondamenta dell’edificio: quando finalmente la casa viene aperta alle visite, una coppia dall’aspetto inquietante appare interessata all’immobile, ma ben presto trascina in un incubo non-sense il protagonista, ottenebrato dal desiderio di vendere. L’episodio, che ha ne La Metamorfosi di Franz Kafka il suo più diretto riferimento letterario, suscita una cupa inquietudine, perché si fonda sul dubbio: alcuni dettagli narrativi, insieme a scelte stilistiche sapientemente studiate nelle inquadrature e nel montaggio, portano progressivamente a dubitare del protagonista, della sua sanità mentale e, contestualmente, spingono a reinterpretare il senso stesso della narrazione.

Il terzo episodio, “Ascolta ancora e cerca il sole”, diretto dalla regista inglese Paloma Baeza, si svolge in un futuro distopico e post-apocalittico, raccontato con una cifra stilistica che mescola i toni poetici e surreali di Hayao Miyazaki e Wes Anderson: la casa è circondata dall’acqua e Rosa, la graziosa proprietaria con l’aspetto di una gatta, l’ha trasformata in un condominio, che ormai si è quasi completamente svuotato dei suoi inquilini. La dimora infatti, una sorta di fatiscente isola galleggiante, rischia di venire sommersa e nonostante Rosa si sforzi di tenerla in piedi con riparazioni improvvisate, si ritrova senza denaro, perché i suoi unici affittuari -e amici- Elias e Jen non la pagano. Il dettagliatissimo progetto di restauro che Rosa tiene appeso nella sua stanza si trasforma in una chimera: il rapporto affettivo con la casa si esplica nella foto di famiglia su cui spesso la protagonista si sofferma, ricordo di un passato felice che, insieme alla responsabilità di un’eredità ormai lontana dagli antichi splendori, non le consente di prendere una decisione circa il futuro, che incombe inesorabile.

Il viaggio nel tempo raccontato nel film si proietta, dunque, nel futuro, ma a ben vedere possiede tutte le caratteristiche di un percorso interiore, faticoso e accidentato, in cui la casa assume la stessa funzione dell’oggetto magico delle fiabe popolari: come un’inquietante lampada di Aladino, nel bene e nel male esaudisce i desideri più profondi dei diversi proprietari, che ne vorrebbero fare un mezzo per ottenere prestigio, rivalsa, ricchezza, felicità. Nella stratificazione di simboli, nella risalita dall’abisso di un incubo fino al cielo sgombro di nuvole di un bellissimo sogno, “The House” esplora il concetto di libertà e racconta della facilità con cui si arriva a privarsene, per inseguire un desiderio che si è radicato nell’animo: poco importa se sia dettato da rabbia, ambizione o nostalgia. E la casa, in definitiva, rappresenta alla perfezione il simbolo ambivalente di ciò che è origine e condanna, opportunità e peso da portare nel cammino della vita.

A guidare gli spettatori in questo viaggio, in cui ciascuno può delineare il proprio percorso di significato, c’è la colonna sonora di Gustavo Santaolalla, Premio Oscar per Brokeback Mountain e Babel, che con il brano finale This house is, realizzato insieme a Jarvis Cocker, suggerisce una chiave interpretativa semplice e efficace, giocando con la parola home, che rimanda alla dimensione degli affetti familiari, e house, con cui si definisce fisicamente un edificio: “La casa (home) è un luogo che unisce vita e amore, una casa (house) non è niente, solo un mucchio di mattoni”.

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