Come si fa a non amare Maria, giovane donna che lotta per realizzare le proprie aspirazioni, prigioniera di una società che ha deciso per lei un destino di moglie e madre? Impossibile non provare empatia, soprattutto se dalle sue parole, così come dal suo corpo, emanano intelligenza, curiosità, volontà di ribellarsi e emanciparsi; i suoi grandi occhi azzurri guardano a un mondo che vanta sui suoi pensieri e sul suo corpo pretese folli e ingiuste, mentre la sua massa scarmigliata di capelli schiariti dal sole si dibatte al vento, come in un diniego perenne, segno visibile di un animo indomito.
Sono i tratti di Benedetta Porcaroli, protagonista di “Vangelo secondo Maria”, il nuovo film di Paolo Zucca in uscita nelle sale il 23 maggio: sì, proprio “quella” Maria, che in questa versione della vicenda tramandata dalle Sacre Scritture ama ascoltare le storie meravigliose che si raccontano alla Sinagoga e sogna di viaggiare per il mondo a cavallo di un asino, travestita da uomo e armata soltanto della propria sete di conoscenza.
Plachi il proprio animo chi pensa si tratti “solo” di un’operazione che cavalca con furbizia le più moderne, e giuste, istanze del femminismo portate al cinema da pellicole iconoclaste come “Barbie” di Greta Gerwig -si perdoni l’accostamento tra sacro e profano; questa Maria è stata infatti tratteggiata da Barbara Alberti nel lontano 1979, tra le pagine del romanzo di cui il film di Zucca è omonimo: il regista e la scrittrice, già co-autori de “L’uomo che comprò la Luna”, hanno collaborato con Amedeo Pagani alla sceneggiatura della pellicola, a lungo meditata da Zucca fin dai tempi de “L’arbitro”, e propongono un ritratto vivido della protagonista, come di un essere umano che davvero attraversi questo mondo, provando e esprimendo emozioni autentiche.
“Ho scritto il libro per raccontare anche una Maria sorridente, che si discostasse dall’immagine di quieta obbedienza con cui è rappresentata di solito”, ha raccontato Alberti nelle interviste promozionali, e di fatto la sua Maria ride e si infuria, spesso e volentieri, e proprio per questa ragione c’è di che capirla e volerle bene, così come a Giuseppe, interpretato da Alessandro Gassmann, che la salva dal giogo voluto per lei dalla famiglia con un casto legame. Si tratta di un patto di libertà anch’esso rivoluzionario, in cui il marito è maestro e fornisce a Maria gli strumenti che la società le ha negato, affinché diventi davvero padrona del suo destino: leggere, scrivere, difendersi con il bastone, parlare greco, se fosse necessario. Non manca che l’amore, in questo racconto di formazione, ma proprio quando il sentimento si affaccia nella vita di Maria in una forma completa e carnale, inaspettatamente si svela per lei il piano di un Dio violento, che la vuole vergine e insieme madre di suo figlio, niente meno che “il Salvatore”.
Libero arbitrio e destino -o deità- giocano dunque una partita crudele, dal risultato incerto: “Nel finale, ho lasciato lo spettatore libero di scegliere”, ha dichiarato Zucca, ma c’è da chiedersi quale possa essere la reazione del pubblico cattolico più tradizionalista, abituato a onorare Maria come un baluardo di umiltà e accettazione; “Non volevamo riscrivere la Bibbia, questo film è un’ipotesi drammaturgica che si muove all’interno dei testi sacri”, ha spiegato ancora il regista, e a ben vedere, il dilemma vissuto dalla giovane donna, nel libro e nel film, non è dissimile da quello di altri personaggi della Bibbia, come Mosè per esempio, che fatica ad accettare il suo ruolo di prescelto, di guida per il popolo ebraico in fuga dall’Egitto. Che la dissonanza, dunque, possa risuonare più fastidiosa per il pubblico perché in questo caso è una donna -e madre- a ribellarsi al proprio destino, ergendosi coraggiosamente dinnanzi a una imperscrutabile divinità?




Ad arricchire di sfumature e di significati la storia di Maria, contribuisce la scelta di trasporre -si potrebbe dire “trasfigurare”- la Galilea in Sardegna, terra particolarmente legata al culto mariano; il patrimonio archeologico e naturalistico dell’isola ben si adatta al racconto di una storia che affonda le proprie radici antropologiche nel mondo agro-pastorale, scandito da un tempo proprio, quasi immutabile, tra cielo e terra: non a caso, la palette dominante di colori, che emerge fin dal trailer, gioca sul contrasto tra l’azzurro acceso -del cielo, ma anche dell’acqua, degli occhi di Maria e della tunica di Giuseppe- e le differenti sfumature di beige, della terra e della pietra. Tra le località coinvolte nelle riprese, San Giovanni di Sinis, nella cui Basilica paleocristiana sono state realizzate le scene della Sinagoga, e Siddi, in provincia di Oristano; ancora, Macomer, per la precisione il complesso nuragico di Tamuli, e Gadoni, sulle rive del Flumendosa, nella provincia di Nuoro. Alcuni ciak sono stati realizzati anche a Cagliari, nel parco del colle San Michele e al Bastione Saint Remy.
Quanto ci assomiglia, in definitiva, la giovane ribelle protagonista del film di Zucca? Moltissimo, perché incarna la lotta tra la volontà di autodeterminarsi e l’impossibilità di controllare ciò che la vita pone sul nostro cammino, che lo si chiami fato o Dio; in questa battaglia, come ricorda Maria alla fine del film con una citazione tutta da scoprire, è proprio l’Amore, in ogni sua forma, a dare senso all’esistenza. Non è forse questo, dopotutto, il significato più puro e rivoluzionario del Vangelo?
































