Gli appassionati di genere horror di certo ricordano gli Universal Classic Monsters, una scuderia di mostri, nati tra le pagine della letteratura di genere, interpretati sul grande schermo da attori del calibro di Bela Lugosi e Boris Karloff e protagonisti di una serie di film prodotti dalla Universal Pictures tra gli anni ‘30 e ‘50 del Novecento.
I vari Dracula, Frankenstein, Mummia, Uomo Lupo hanno riscosso all’epoca un enorme successo e sono rimasti scolpiti, anche per le loro fattezze, nell’immaginario del pubblico; a partire dal 2014, la Universal ha deciso di investire su un reboot di questo universo “mostruoso” sotto il marchio “Dark Universe”, ma il primo film della saga, “Dracula Untold”, non ha riscosso il successo sperato, così come “La Mummia” del 2017 con Tom Cruise e Russell Crowe.
Il progetto non è stato definitivamente accanto, per quanto sia venuta meno l’idea di una serie di film collegati tra loro, e nel 2020 la premiata ditta Jason Blum, fondatore della casa di produzione Blumhouse, e Leigh Whannell, co-creatore e sceneggiatore delle saghe di “Saw” e “Insidious” oltre che attore e regista, ha riscritto la storia di un altro mostro della scuderia Universal, “L’Uomo Invisibile”, ottenendo un grande successo di critica e pubblico. Forti di questo risultato, Blum e Whannell hanno scelto di lavorare su un nuovo titolo, il riadattamento de “L’Uomo Lupo”, grande classico del 1941 con protagonista Lon Chaney Jr.: “Wolf Man” esce nelle sale italiane il 16 gennaio distribuito da Universal e propone un’interpretazione originale e decisamente calata nell’attualità di un tema e di una creatura della tradizione horror.
Protagonista della vicenda è Blake (Christopher Abbott), padre amorevole di Ginger (Matilda Firth) e marito di Charlotte (Julia Garth); la famiglia vive a San Francisco, ma sta attraversando un periodo complicato: Blake ha perso il lavoro, mentre Charlotte è fin troppo assorbita dalla carriera ed è spesso assente e nervosa. Una notizia inattesa rompe la routine familiare: Blake eredita infatti la casa natia nei boschi dell’Oregon dopo la certificazione della morte di suo padre, scomparso anni addietro e mai ritrovato; un periodo di tempo lontano dai ritmi frenetici della città sembra l’occasione giusta per ritrovare un po’ di serenità familiare, così Charlotte e Ginger accompagnano Blake nei luoghi della sua infanzia.
Disgraziatamente, la famiglia ha un incidente e viene aggredita da una creatura selvaggia, che ferisce Blake a un braccio: è l’inizio di un incubo per l’uomo, che comincia a stare male e a perdere il contatto con la realtà, trasformandosi nell’arco di un tempo spaventosamente breve in una minaccia per Charlotte e Ginger. È proprio la mutazione fisica e psicologica del protagonista, che non ha alcun controllo sui propri comportamenti, a costituire l’aspetto più raccapricciante del film, ben esplicitato da alcuni passaggi del trailer in cui la camera racconta in soggettiva come Blake percepisce le persone e gli spazi intorno a sé, mentre è in atto la trasformazione.
La storia del cinema ci ha regalato diverse interpretazioni di questo “mostro”; tra le più recenti si annoverano “Wolf – La belva è fuori” (1994) di Mike Nichols, con Jack Nicholson, e “Wolfman” (2010) di Joe Johnston, con Benicio Del Toro, ma è forse il celebre “Un lupo mannaro americano a Londra” (1981) di John Landis ad avere più tratti in comune con l’Uomo Lupo targato Blumhouse; in questo film, infatti, la mutazione viene raccontata come una patologia, che avanza progressivamente nel corpo di chi ne è affetto. Leigh Whannell, anche sceneggiatore con Corbett Tuck, sceglie un approccio simile, ponendo l’accento sui meccanismi angosciosi del contagio, con echi che rimandano alla recente pandemia e alle dinamiche da isolamento forzato.
Interessante, infine, il ribaltamento dei ruoli familiari e la riflessione sull’evoluzione della figura paterna, per Blake così come per Ginger: con una doppia minaccia che insidia la famiglia sia dall’interno che dall’esterno, anche Charlotte è costretta a mettere in discussione il proprio ruolo di madre. Nella migliore tradizione Blumhouse, dunque, un horror che scava nell’attualità, sfruttando con intelligenza le peculiarità del genere.
































