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Giovani, maschi e morti nel fiore degli anni: la bioarcheologia ci racconta Mont’e Prama

Questi i preziosi risultati emersi dall’approccio multidisciplinare del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Sassari sul celebre contesto di Mont’e Prama, recentemente presentati a Cabras in occasione di Verso Archeologika 2022

di Giada Azara
11 Marzo 2022
in Archeologia, Sardegna
🕓 4 MINUTI DI LETTURA
316 24
Volto di un giovane di Mont'e Prama. ? Museo della Tonnara di Stintino

Volto di un giovane di Mont'e Prama. ? Museo della Tonnara di Stintino

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Il progetto Archeologika non si smentisce nella sua volontà di promuovere attivamente il patrimonio archeologico regionale. L’evento, promosso dall’assessorato regionale al Turismo e patrocinato dal MiC, si è aperto con la due giorni “Verso Archeologika 2022” a Cabras (e dove se non nella “patria” dei giganti?) e ha visto il susseguirsi di incontri, convegni e riflessioni a tema. Senza dubbio l’intervento dal titolo “Bioarcheologia a Mont’e Prama” è stato quello che ha incuriosito maggiormente la platea.

La lectio magistralis tenuta dal pool di esperti del dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Sassari, composto dal microbiologo Salvatore Rubino, dall’antropologo Luca Bondioli e dall’archeologo Raimondo Zucca, ha infatti mostrato alcuni dettagli della vita degli individui sepolti nel celebre complesso archeologico del Sinis. Si tratterebbe di uomini, tra i 15 e i 25 anni, non parenti tra loro, provenienti dallo stesso areale. Ciò che ha colpito sicuramente di più è stata però la ricostruzione di uno dei loro volti, grazie ad un teschio in buono stato di conservazione.

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Gli studiosi, dopo aver brevemente definito la bioarcheologia come un insieme di diverse metodologie utili ad indagare il rapporto tra biologia e cultura, sono passati alla sua applicazione nel contesto di Mont’e Prama.

Facciamo ordine: a seguito di una campagna di scavo del 2014 nella necropoli, sono emerse diverse sepolture a pozzetto e a lastra, datate tra 800 a.C. e 750 a.C, con resti umani al loro interno. Dunque, ecco le domande di ricerca: Che età avevano questi individui? Come avevano vissuto? Da dove provenivano? Erano uomini o donne?

Lo studio dei denti è stato in grado di fare chiarezza su molti di questi punti. Ad esempio, grazie all’osservazione di una particolare proteina presente nello smalto dentale, la amelogenina, la cui forma differisce tra cromosoma x e y, è stato possibile determinare che si trattava di soli individui di sesso maschile. Stabilito poi un range di età compreso tra i 15 e i 25 anni, i ricercatori si sono chiesti il perché fossero morti tanto giovani, e quindi se avessero subito particolari stress. Ma cos’è uno stress? Per un bambino, infatti, anche lo svezzamento è un piccolo trauma, per quanto banale ed irrilevante. Effettivamente, dall’esame del terzo molare è emerso un aumento esponenziale della tensione attorno ai 12 anni. Purtroppo, però, non è facile determinare quali siano le cause e le conseguenze di questo fattore e per fornire un’interpretazione più certa sarà necessario attendere maggiori approfondimenti.

Al contrario, un riscontro molto più chiaro è emerso dalle indagini sulla provenienza, portate avanti con l’analisi sugli isotopi dello stronzio, elemento chimico il cui nome potrebbe far sorridere, ma in grado di registrare le caratteristiche dei luoghi in cui si è vissuto. La comparazione dei suoi valori all’interno di un campione ambientale con quelli presenti nei denti repertati ha messo in luce una netta origine locale o, quantomeno, un areale condiviso, sebbene questo potesse essere ampio anche più di un centinaio di chilometri.

Un’ulteriore conferma di questo elemento è stata ottenuta attraverso lo studio del DNA antico, in collaborazione con il professor David Caramelli dell’Università di Firenze. Tra i soggetti sepolti emerge nettamente la variabilità genetica dei sardi del Neolitico e dell’età nuragica, di cui tutt’oggi persistono minime tracce nella popolazione isolana. Questa metodologia ha inoltre permesso di smentire l’ipotesi che vedeva nei defunti in esame un gruppo familiare, escludendo rapporti di parentela tra di loro, almeno per via materna.

È stato però l’identikit dei giovani nuragici l’argomento di punta del convegno, sebbene frutto di dati noti dal 2016.

La ricostruzione del volto è stata portata avanti in cooperazione con il professor Vittorio Mazzarello, la dottoressa Manuela Uras e il Face Lab della John Moores University di Liverpool, partendo da un cranio contenuto nella tomba A. Una volta sottoposto alla TAC, si è passato all’applicazione digitale dei muscoli presso l’Istituto di Radiologia dell’Università di Sassari. Sono stati poi aggiunti alcuni dettagli, prendendo spunto dagli elementi presenti nella statuaria dei giganti, come la capigliatura. L’immagine che ci viene restituita è quella di un ventenne senza barba con due lunghe trecce che scendono sul petto.

Ora conosciamo le loro fattezze, la loro provenienza e sappiamo qualcosa in più anche sulla loro vita. Le risposte fornite dalla bioarcheologia sul contesto archeologico che ha fatto più discutere la Sardegna negli ultimi anni, seppur ancora incomplete, forniscono un punto di partenza per le future indagini, ma per poter dare nuove chiavi di lettura ai tanti quesiti che non hanno ancora una risposta, a partire dalle cause del decesso, sarà necessario attendere ulteriori scoperte.

Tags: archeologiaArcheologikaCabrasMont'e PramaSardegna
Giada Azara

Giada Azara

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