Arte al servizio della liturgia, arte educativa e funzionale, arte ricca e per certi versi arcaica. Siamo nella via dei retabli, tra quelle pale d’altare un po’ quadri e un po’ sculture, un po’ d’oro e un po’ di legno, diffusesi sull’isola con la dominazione catalano-aragonese.
Il termine retaule, retablo in spagnolo, trae probabilmente la sua origine dalla locuzione latina e(tro)tabulum altaris (tavola dorsale dell’altare). Il significato del termine, che rimanda a una tavola posta dietro l’altare delle chiese cristiane, non ci dice di fatto cosa sia un retablo.
Cerchiamo quindi di risolvere questo dubbio. Un retablo non è altro che una pala d’altare composta da più scompartimenti, uniti tra loro da cerniere o cornici in una struttura complessa, talvolta con sportelli richiudibili. Si tratta di un’arte ricca, complessa, fortemente scenografica, caratterizzata dall’uso elaborato di molteplici materiali che si combinano tra loro.
L’esordio del retablo nel mondo dell’arte liturgica è pratico. Nel X secolo, infatti, si assistette a un cambiamento nella messa: i sacerdoti iniziarono a celebrarla di fronte all’altare ma con le spalle rivolte ai fedeli. Così nacque l’esigenza di porre dietro l’altare uno scenario dipinto con al centro un tabernacolo e alcuni sportelli dove deporre gli oggetti usati per la celebrazione. Se inizialmente i retabli erano piccoli e facili da trasportare, in seguito arrivarono ad occupare l’intera parete. Questo avvenne perché la struttura a scomparti ben si prestava agli intenti divulgativi della Chiesa ed era adatta a raccontare “storie”, proprio come avviene oggi nelle moderne vignette. L’aumento della dimensione fece sì che tutti i partecipanti alla messa potessero vedere il retablo con facilità. La parte centrale nata per ospitare il tabernacolo mutò spesso la sua funzione, accogliendo statue lignee della Madonna o icone di Santi.
Perché l’intento educativo? Per illustrare alle masse scene della vita dei santi, di Cristo o della Vergine poteva essere utile sfruttare l’immediatezza e la potenza dell’immagine. La struttura del retablo permetteva infatti di ordinare delle immagini in sequenza veicolando un significato religioso. La parte alta del retablo chiamata Cimasa era spesso dedicata alla Crocifissione. I cosiddetti polvaroli – cornici che proteggevano i dipinti dalla polvere – ospitavano teorie di santi, mentre nello scomparto centrale faceva la sua comparsa la figura principale a cui il retablo era stato dedicato, dipinta su tela o tavola oppure scolpita a tutto tondo e inserita in una nicchia. Molto importante anche la parte di sotto del retablo, detta predella, dedicata alla trattazione di scene di vita dei Santi.
Con quali materiali sono fatti i retabli? Il legno di castagno, pero, rovere o noce è il materiale primario della struttura. Gli inserti sono spesso protetti in cornici dorate, scolpite o dipinte. Le ante, che venivano aperte generalmente nei giorni di festa, accolgono raffigurazioni di miracoli a mezzo rilievo.
I retabli arrivarono in Sardegna nel XV secolo nella sua versione definitiva di grande apparato decorativo ed educativo. I primi retabli furono opera di artisti catalani come Joan Figuera e Joan Mates e li troviamo esposti alla Pinacoteca di Cagliari. Successivamente si formarono delle vere e proprie scuole d’arte sarde dove si esercitava l’arte del retablo. La più famosa fu quella di Stampace, dove iniziò la sua attività in bottega la famiglia Cavaro. Grazie a questi artisti, che operarono a Cagliari per alcune generazioni, l’arte del retablo si fece più tipicamente sarda, integrando le influenze locali a quelle iberiche. Gli unici retabli conservati integralmente e attribuiti a Pietro Cavaro, il capostipite della scuola stampacina, sono il Retablo dei Consiglieri, esposto al Comune di Cagliari, il Retablo del Santo Cristo di Oristano e quello di Villamar. Del figlio Michele, invece, si conservano solo frammenti, come la pala della Madonna della Neve per San Francesco di Stampace.
Molti artisti sardi dediti alla creazione dei retabli vivono nel mistero, senza un nome, identificati solo dalla zona in cui esercitavano. Tra questi il Maestro di Ozieri, da molti identificato con il nome di Andrea Sanna e autore del Retablo di Nostra Signora di Loreto esposto nella Cattedrale dell’Immacolata di Ozieri, e il Maestro di Olzai, autore del Retablo della Pestilenza conservato nella Chiesa di Santa Barbara a Olzai.
Ma il vero mistero rimane l’identità di colui che rappresentò l’eccellenza in quest’ambito in Sardegna. Si tratta del Maestro di Castelsardo, autore del Retablo di Tuili (5 metri e mezzo di altezza per tre metri e mezzo di larghezza) commissionato nel 1489 dai signori del paese, i Santa Cruz. Il prezioso polittico – altro nome con cui è indicato il retablo – è custodito nella Chiesa di San Pietro a Tuili. Recenti studi e ricostruzioni hanno anche dimostrato che, molto probabilmente, il Maestro di Castelsardo fu anche autore del più grande retablo della Sardegna. L’opera, di fatto perduta poiché ne rimangono solo pochi frammenti, doveva avere un’altezza di ben sette metri e una larghezza di cinque.
Dopo questo viaggio alternativo nell’arte sarda non resta che andare a caccia dei numerosi retabli sparsi nelle chiese della Sardegna, scoprire le storie dei santi raccontate attraverso immagini scolpite proprio come nel XV secolo. Anche l’arte sacra è, d’altronde, parte integrante della nostra memoria storica, culturale e artistica.