Negli ultimi anni la coscienza ambientalista della popolazione mondiale si è risvegliata, soprattutto per merito di manifestazioni come “Friday For Future” che portano a scendere in piazza migliaia di persone che richiedono una generale conversione ecologica. Oggi quindi, vantarsi di essere un’azienda o un’impresa che rispetta l’ambiente è diventata più una questione di reputazione che di vero interesse verso un’organizzazione produttiva di tipo green.
È da qui che nasce la nozione di “greenwashing”. Letteralmente il termine – unione tra le parole “green” (“verde”, simbolo dell’attivismo ecologico) e “washing” (“lavare”) – significa “lavata di verde”, inteso nel senso di “darsi una patina di credibilità ambientale”. Questa nozione oggi è usata a livello globale per spiegare come le aziende impieghino delle strategie di comunicazione per costruire la propria immagine di “paladini della salvaguardia ambientale” nascondendo l’impatto, in realtà negativo, delle proprie attività o prodotti sul pianeta. Mostrandosi quindi pubblicamente sensibili e attivamente impegnati in questioni ambientali più di quanto lo siano in realtà. Vero fine di tali tattiche è il godimento dei vantaggi legati alle etichette bio, eco e green presso l’opinione pubblica.
Il termine venne utilizzato per la prima volta nella metà degli anni Ottanta dall’ambientalista Jay Westerveld che notò come le catene alberghiere avessero iniziato a domandare ai clienti di usare più volte gli stessi teli e asciugamani da bagno, facendo leva sulla sostenibilità ambientale di tale pratica ma nascondendo, invece, motivazioni di tipo economico a proprio privato beneficio. Più tardi, il ricorso alla pratica del greenwashing divenne sempre più diffusa, complici gli studi che rivelarono la maggior propensione dei consumatori ad acquistare servizi o prodotti da marchi attenti alle tematiche ambientaliste, e iniziò a coinvolgere aziende di ogni tipo: dall’alimentare, all’abbigliamento, fino alla cura del corpo e della casa.
Ma in che modo le imprese fanno greenwashing? Le strategie sono molteplici. Le aziende possono, ad esempio, mentire sulle emissioni degli impianti di produzione; possono portare il consumatore a pensare che acquistando uno specifico prodotto stia facendo un gesto significativo per l’ambiente, non informandolo invece sull’impatto complessivo che quella categoria di prodotto ha sulla natura, o possono puntare su messaggi promozionali ambientalisti che tralasciano il punto di vista produttivo. Si tratta quindi di pratiche di marketing che si manifestano con comunicazioni ingannevoli che tendono a tenere nascosti alcuni aspetti.
Sono tanti gli esempi di greenwashing nel mondo. Tra i casi più noti c’è quello della Coca-Cola Life, dolcificata con la stevia al posto del solito zucchero e caratterizzata dall’etichetta verde nel tentativo di coniugare la causa salutista con quella ambientale. McDonald’s ha abolito totalmente le cannucce di plastica, optando per quelle di carta nel tentativo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla deforestazione dell’Amazzonia di cui, insieme all’azienda Nestlè, è tra i principali responsabili. Altro esempio è quello dell’acqua San Benedetto multata per aver presentato la propria bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente”.
Inoltre, ci sono vari marchi che mirano ad aumentare le vendite di un prodotto falsificando i dati riportati sulle etichette, altri parlano in modo troppo generico, invece, di “capi di abbigliamento riciclati” senza però menzionare il processo di fabbricazione e senza fare riferimento alla percentuale di altri indumenti prodotti e venduti senza il rispetto dei principi eco-sostenibili. È il caso della collezione “join life”, adottata negli ultimi tempi da gran parte delle aziende di fast fashion. Gli abiti di questa categoria vengono realizzati con fibre naturali, vegetali, riciclate o biologiche, ma costituiscono una percentuale veramente bassa di ciò che troviamo poi nei negozi. L’azienda di abbigliamento H&M, ad aprile scorso, ha annunciato che i clienti che avrebbero acquistato i prodotti della collezione “conscious” (descritta come “interamente eco-friendly”) avrebbero ricevuto dei punti da poter trasformare in buoni-acquisto per altri prodotti di altre collezioni. Tale strategia è stata usata per invitare ad un ulteriore consumo ma, secondo i dati della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, l’azienda si configura, insieme alle concorrenti, come la responsabile del 20% dello spreco globale d’acqua e del 10% delle emissioni di anidride carbonica.
È importante comunque cercare di distinguere le campagne di greenwashing dai graduali sforzi di conversione ecologica delle aziende anche se, quando si tratta di multinazionali, il confine tra le due risulta quasi impalpabile perché queste hanno la tendenza ad appropriarsi della causa ambientalista, svuotarla e trasformarla in una loro ulteriore fonte di profitto.