La forza salvifica dell’amore in “Rut” di Christoph Nix, nell’interpretazione dell’attrice algherese Chiara Murru, per la regia di Nicola Bremer (che ha curato anche la traduzione del testo), produzione del Theater Konstanz in collaborazione con Lo Teatrì e Spazio T, in cartellone oggi (sabato 18 marzo) alle 21 al Teatro San Bartolomeo di Meana Sardo e venerdì 24 marzo alle 21 al Teatro Centrale di Carbonia sotto le insegne della Stagione 2022-2023 de La Grande Prosa organizzata dal CeDAC | Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna.
Si ispira alla figura dell’eroina biblica narrata nel Libro di Rut, la pièce teatrale che traduce in forma di monologo le varie peripezie di due donne e la scelta difficile e coraggiosa della protagonista, rimasta vedova, di accompagnare la suocera nel suo viaggio di ritorno in Israele, per non separarsi da lei. “Rut” affronta temi cruciali del presente, come l’essere e sentirsi stranieri, lontani dalla propria patria e l’importanza dell’accoglienza dell’altro, ma anche la profondità di un legame che infrange le regole e le convenzioni, che supera ogni ostacolo e vince ogni timore: Christoph Nix riscrive la vicenda sulla falsariga dell’Antico Testamento, con sensibilità contemporanea, creando «una parabola senza tempo sull’amore» – si legge nella presentazione – «che va al di là dell’estraneità e che concede la libertà di superare le norme tradizionali».
La trama è nota: dopo la morte del marito, Rut si mette in cammino insieme con la suocera Noemi, la quale, ormai vedova e senza figli, si è decisa a tornare nella sua terra d’origine, da cui era dovuta partire in seguito a una carestia, trovando rifugio in Moab, dove si era stabilita insieme con il consorte Elimèlech. In quel paese i due figli, Machlon e Chilion, avevano preso moglie, ma ormai entrambi sono morti, come il loro padre: Noemi e le due nuore, Opra e Rut sono rimaste sole, e la donna più anziana desidera ora di recarsi nella natia Israele, liberando le giovani da ogni obbligo verso di lei, quasi invitandole a rifarsi una vita dopo il lutto. Rut però preferisce restare accanto a Noemi, pur consapevole dei rischi e del duro destino che l’aspetta, seguendola in Israele, dove come straniera, vedova e povera si troverà in una condizione infima ai margini della società: tuttavia la sua gentilezza e bontà d’animo incantano Boaz, che decide di chiederla in sposa e accoglierla nella sua casa, insieme a Noemi.
Una storia esemplare, quasi una moderna favola a lieto fine. Specialmente se si pensa alle sorti tragiche di tanti moderni migranti che in fuga da guerre, carestie o persecuzioni o soltanto in cerca di un futuro migliore, attraversano deserti e montagne o insidiosi tratti di mare, mettendosi nelle mani dei “trafficanti d’uomini” e rischiando la propria incolumità e la propria vita in cambio di una speranza, di un sogno, spesso un miraggio, di pace e libertà.



“Rut” ripercorre i momenti più significativi della sua esistenza, spiegando le sue ragioni, anche in contrasto con la legge e la tradizione, laddove queste le apparissero ingiuste o mortificanti, riaffermando con grazia ma anche con ferma convinzione il proprio punto di vista e la necessità che ha guidato le sue azioni e i suoi comportamenti. La donna moabita rivela le sue più segrete aspirazioni, i suoi pensieri e le sue emozioni, perfino la sua personale utopia in una civiltà e in un’epoca in cui la condizione femminile era comunque di sottomissione, per cui era necessario avere accanto un uomo – padre, fratello, o marito: «…sognavo di una città delle donne, di un luogo dove essere libere».
«Il bellissimo testo di Christoph Nix sembra dirci che ad un certo punto della vita è necessario provare sulla propria pelle la situazione di estraneità, di lontananza dalla propria terra e imparare così la solidarietà e l’accoglienza dell’altro» – sottolinea il regista Nicola Bremer, artista affermato e apprezzato in Europa e in Medio Oriente, premiato dalla rivista Theater Heute come miglior regista emergente per “Selfies einer Utopie” –. «Solo se scegliamo di diventare stranieri, la nostra vita esce dai circoli soffocanti delle sicurezze e si apre alla fecondità. Forse è proprio il tempo della crisi ciò che ci costringe a uscire e farci stranieri».
«Come Rut, dovremmo anche noi diventare consapevoli che le nostre radici non sono solo il luogo dove siamo nati o vissuti, ma anche il luogo dove scegliamo di vivere e a cui sentiamo di appartenere» – prosegue Bremer –. «Non c’è peggior idiozia che l’idolatria della terra, cioè quella dimensione nazionalistica e di assolutizzazione delle proprie radici geografiche che ignorano il fatto fondamentale che siamo tutti pellegrini e stranieri. È interessante come il termine “gher” in ebraico significhi sia residente che straniero, perché la terra va abitata non posseduta».