Il prossimo venerdì 18 giugno alle ore 18:00 presso Messaggerie Sarde di Sassari, Margherita Detomas presenterà il suo libro “Città Invisibili. L’Eldorado di Percy H. Fawcett e Timothy Paterson”. Un grande reportage, tutto italiano, che aggiunge dettagli al successo hollywoodiano “Civiltà Perduta (The Lost City of Z, 2016)” di James Gray, con Charlie Hunnam e Sienna Miller
Percy H. Fawcett, esploratore e cartografo reale, scompare durante la sua ultima spedizione nel cuore del Brasile, nel 1925. Centinaia i ricercatori sulle sue tracce e gli articoli della stampa internazionale. Margherita Detomas, raro esempio di giornalista esploratrice, parte alla ricerca di Fawcett, per molti il vero ispiratore della figura di Indiana Jones, insieme al suo pronipote Timothy Paterson, ricercatore e indagatore di misteri.
Il libro, frutto di vent’anni di indagini nel Mato Grosso, riscrive le coordinate del viaggio, fornisce particolari inediti, ed apre le porte della foresta all’archeologia accademica con stile impeccabile, scientificità dei dettagli e grande passione. Il mito di Eldorado, e del suo più fedele cercatore, Percy H. Fawcett, non smette di affascinare.
Un libro vasto, come il Brasile nel quale le vicende raccontate sono avvenute. Un libro esatto, come il rigore scientifico di una reporter professionista esige. Un libro misterioso, come misteriose sono le verdi valli del Mato Grosso, solo all’apparenza accessibili, ma in realtà più impervie e pericolose di qualsiasi porzione di foresta amazzonica.
Ed è proprio nel cuore di questa natura potente ed imperiosa che si perde l’esploratore per eccellenza: Percy H. Fawcett. Cartografo di Sua Maestà britannica, da anni percorre su e giù il mondo, e le giungle del Sud America in particolare, per misurare rilievi, tracciare mappe, stabilire altimetrie, e dare una forma a ciò che non si conosce.
Il serio studioso, che naturalmente doveva possedere un buon senso dell’avventura, si trasforma però ben presto in qualcos’altro: un cercatore. Nelle foreste del Perù prima, e del Brasile poi, ha visto qualcosa, sente qualcosa, e questo qualcosa lo spinge al fondo del mistero.
Nel racconto dettagliato che porta Fawcett a intraprendere l’esplorazione che gli sarà fatale, Margherita Detomas è abile nel creare il crescendo di mistero e aspettative che l’uomo, prima ancora dell’esploratore, cominciava a nutrire. L’ambiente intellettuale dal quale Fawcett proveniva, seppur mescolato ai sani e robusti spiriti dell’esercito britannico, ne faceva un predestinato naturale alla quête per eccellenza, quella dell’Eldorado. E tuttavia Fawcett non chiamava così la propria Eldorado. La chiamava “Z”, una città misteriosa nel cuore della foresta, la cui prova dell’esistenza sarebbero il Manoscritto n.512, che l’autrice è riuscita a visionare, prima tra una larga schiera di occidentali, e le cui preziose immagini sono custodite nel testo; e una misteriosa statuetta di basalto nero, che Fawcett portava con sé come una sorta di talismano, ma anche come monito di un luogo che nel fondo del proprio animo aveva già deciso di raggiungere.
Il sogno del cercatore unito alla tenacia dell’esploratore professionista: ecco il connubio perfetto che ha portato tanti a interessarsi di questo grande mistero del secolo ventesimo.
Detomas ricostruisce dapprima la vicenda attraverso i giornali dell’epoca, e attraverso il coro di libri, articoli, film, e documentari che si sono susseguiti da quel lontano 1925 in poi. Già solo questo aspetto restituisce chiarezza e verità sullo svolgimento dei fatti. E tuttavia l’autrice fa anche di più: dopo aver incontrato per un gioco del destino il pronipote di Fawcett, Timothy Paterson, parte in esplorazione del Mato Grosso, in una serie di viaggi che durano circa vent’anni. Grazie a queste rilevazioni sul campo, riesce a riscrivere le coordinate degli ultimi spostamenti, con localizzazioni differenti rispetto a quelle considerate ormai “storiche”. Inoltre, restituisce tutta la dimensione sacrale della ricerca dell’esploratore britannico: oltre a narrare del prezioso Manoscritto n.512, Detomas ripercorre il mito di Atlantide, anche sulla base delle scoperte archeologiche più recenti e porta il lettore/lettrice nei siti meno conosciuti del Mato Grosso, semplicemente dicendo “io narro, ma ecco qui cosa ho visto”.
Sono proprio la razionalità e la limpidezza della giornalista che esaltano ancora di più la dimensione magica della ricerca, tanto che ciascuno/a, leggendo il testo, viene colto/a da una irrefrenabile voglia di partire alla… ricerca di Fawcett, a dimostrazione del mito ormai storicizzato intorno all’esploratore britannico, ma soprattutto a dimostrazione che la dimensione della ricerca è quella che antropologicamente ci rappresenta meglio.
I punti di forza del volume sono molteplici: corrette ricostruzioni della pubblicistica del tempo, fino agli ultimi anni a noi quasi contemporanei; disamina delle principali esplorazioni nel Mato Grosso, anche, ma non solo, alla ricerca di Fawcett; materiale iconografico di primissima mano (sono quasi tutte foto dell’autrice medesima) che rappresenta zone inconsuete, ma pure archeologicamente valide del Brasile, mai mostrate ad un pubblico italiano; limpidezza della scrittura e chiarezza espositiva; una narrazione che non nega al lettore/lettrice la dimensione del sogno.
Tutte queste caratteristiche fanno del libro non solo un saggio bellissimo e oltremodo valente dal punto di vista informativo-divulgativo, ma contribuiscono ad una operazione culturale che, per chi scrive, è forse il portato maggiore del volume: aprire alla ricerca accademica, e quindi universitaria, e quindi all’archeologia propriamente detta, le porte del Mato Grosso.
Nel libro è possibile leggere questo monito sulle labbra di chi, a vario titolo, si è impegnato nella ricerca di Fawcett: in primo luogo del suo pronipote, Timothy Paterson, in secondo luogo su quelle di Margherita Detomas, e di tutti coloro che si sono succeduti nelle esplorazioni di questo luogo ad oggi misterioso; tra di essi, non manca di ricordare l’autrice, una menzione del tutto speciale deve essere fatta dei missionari italiani, che da anni sono in prima linea nell’aiutare gli Indios nel difficile confronto con la cultura occidentale, supportandoli e aiutandoli a sostenere le proprie peculiarità, quando non curandoli e istruendoli.