Il codice non scritto.
Pellicole come Gomorra, Suburra e Romanzo Criminale ci hanno impartito una lezione doverosa: l’Italia e la sua società vivono anche di realtà nascoste, violente, criminose, che vanno necessariamente raccontate e fatte conoscere al grande pubblico.
Esporre il proprio territorio nella sua interezza, anche nel male, è dunque compito fondamentale per ogni regista, ed è così che nasce, infatti, il film isolano Bandidos e Balentes: il codice non scritto ad opera del regista Fabio Manuel Mulas. Interamente recitato in “limba” (successivamente tradotto in italiano), l’opera candidata alle preselezioni per la “Biennale del cinema di Venezia”, tratta il tema del matriarcato negli anni 50-60 tra le faide, i sequestri e le vendette che tanto hanno dilaniato la Sardegna di quegli anni.
Per una maggiore delucidazione abbiamo rivolto alcune domande al regista stesso.
Ciao Fabio, innanzitutto, come nasce il progetto?
Il progetto è nato per caso con il sostegno del mio compare Gianluca Pirastu, appuntato dei Carabinieri, e dell’amico Antonio Giovanni Battista Pischedda (sceneggiatore). Insieme abbiamo tracciato la sceneggiatura seguendo storie vere e realmente accadute nell’isola, modificando i luoghi, i nomi e i fatti, mettendo in evidenza il matriarcato: il potere silenzioso della donna.
Era lei che dava l’input all’uomo per l’inizio e la fine di un qualsiasi avvenimento delittuoso, dall’abigeato al sequestro; insomma, tutto ciò che riguardava una decisione.
Nel matriarcato la parola veniva usata ben poco, nella maggior parte dei casi era tutta una questione di sguardi e di gesti.
Come è stato svolto il lavoro di documentazione e approfondimento?
La documentazione per questo lavoro è frutto di anni e anni di servizio nei carabinieri da parte di Gianluca Pirastu, che, da appassionato cultore delle tradizioni sarde, durante le pause di servizio si faceva raccontare da pastori e allevatori locali storie di vari luoghi, fino a quando non gli ho proposto di buttare giù qualche bozza per il progetto.
Giorno per giorno prendeva forma un intreccio di racconti da cui è nata la sceneggiatura del progetto.
Un ruolo molto rilevante nel progetto lo ha avuto Luca Locci (vittima di sequestro), come è nata questa collaborazione?
Dopo aver desiderato da sempre visitare Orgosolo e Mamoiada, ne ho finalmente avuto la possibilità grazie ai miei collaboratori Gianluca Pirastu e Tonino Pischedda in occasione della “Cortes apertas” ad Orgosolo. Lì mi portarono in visita da un loro parente: Luca Locci, il bambino sequestrato nel 1978 a Macomer.
Non avevo ancora capito chi fosse, ma Gianluca me lo chiarì.
Passarono due giorni e su Facebook ricevetti un messaggio da parte di Luca, che mi disse di aver letto del mio film e di volermi raccontare qualcosa sul sequestro. Ci demmo appuntamento a Macomer e lì gli proposi di interpretare il ruolo del sequestrato nel mio film.
Lui con titubanza mi rispose di non saper recitare, ma di volerci comunque provare.
Da lì entro nel cast anche Luca Locci.
C’è ancora speranza per il cinema sardo?
In 16 anni di cinema non ho mai trovato una situazione cinematografica come in Sardegna. C’è molta diffidenza nei nuovi talenti, nelle nuove proposte, io stesso, lavorando a tre film, ho sempre trovato le porte chiuse dalle produzioni sarde, costringendomi a produzioni esterne all’isola. Manca collaborazione da cineasti, produzioni, e qualche volta anche dalle istituzioni.
Se si vuol incrementare il turismo, far conoscere la Lingua, la cultura, la storia, le tradizioni, bisogna far qualcosa per la nostra Isola e non per noi stessi.
Avete riscontrato più entusiasmo o riluttanza da parte del pubblico? Il pubblico ha paura dei temi affrontati nel film?
La gente fino ad oggi ci ha dimostrato tantissimo affetto. Tutti fremono nell’attesa di vedere questo film, ma paura?
No, nessuno ha paura dei temi affrontati perché sono comunque parte della nostra storia, e la storia non si dimentica, la si conserva e la si tramanda per generazioni, per non dimenticare le nostre radici, la nostra cultura e le tradizioni, anche se delle volte risultano tragiche, ma è pur sempre la nostra storia che ci fa crescere e cambiare.