Fonde video, suono e fotografia, crea installazioni su temi diversi il cui senso profondo è dato dall’aspetto relazionale e di processo, così Gianluca Vassallo, quarantenne di San Teodoro, genera atti artistici. Esempio del sua creatività è la mostra “La Città Invisibile” che si può visitare a Cagliari fino al 6 Gennaio, presso la sede della Fondazione Banco di Sardegna, in via S. Salvatore da Horta 2. Arte e ricerca scientifica riflettono sullo spopolamento in Sardegna; sono trentuno, infatti, i comuni a rischio d’estinzione, e Gianluca Vassallo, scegliendo i dieci paesi con la minor densità di popolazione, attraverso centosei fotografie e un video, ci restituisce poeticamente quelli con la più ampia “circonferenza della solitudine”. Sono molti i progetti di Gianluca che portano a riflettere sulla realtà che ci circonda, per questo abbiamo voluto intervistarlo.
Quando hai iniziato a fare arte?
Nessuno ricorda la nascita, almeno non io! Come ogni scelta del quotidiano, anche ogni espressione della creatività, è sempre effetto della complessità maturata vivendo.
Come nascono i tuoi progetti?
Non esiste istinto che non agisca in uno scenario di senso maturato in precedenza. Il pensiero è sempre, nella mia personale modalità di produzione artistica, precedente all’atto estetico. Questo per ricondurre tutto alle domande che mi sembra necessario portare al mondo ma anche per dare spazio a quelle che il mondo vuole portare a me. I progetti che realizzo, in fondo, non sono altro che tentativi di istruirmi attraverso l’esperienza, per arrivare con la sensibilità dove la cultura non arriva. Realizzando il progetto Shoot Me Orlando, io ero già “culturalmente” vicino ai diritti LGBT, ma fotografare due uomini che si baciano, o due donne, ad una distanza così ravvicinata da essere intima, ha la capacità di spostare le tue convinzioni culturali su un piano diverso che è quello esperienziale. Ecco, io non mi vergogno a dire, che durante le prime tre fotografie, mi sono sentito a disagio. Ma un bacio alla volta, quei baci, si sono trasformati da “culturalmente naturali” ad “esperienzialmente naturali”.
Quale viaggio di lavoro ti ha lasciato di più?
Sicuramente la Costa d’Avorio ha cambiato il modo in cui, dall’Occidente, guardavo all’Africa. Ad Abidjan c’è una folla da dopoguerra, notte e giorno, in cammino verso qualcosa. Le armi non suonano da parecchio ma è come una tregua perenne che non vuole diventare pace duratura. Lo puoi sentire nell’aria che sono a due generazioni dall’emancipazione dal bisogno, lo senti con la stessa potenza con cui ti accorgi che tutto è ambiguo, che ciascuna vittima della corruzione è pronta a diventare corruttore, che gli ultimi non combattono i primi, ma i penultimi.
Quale senso dai alla tua vita e alla tua arte?
La vita e l’arte sono la stessa cosa. Io sono ciò che faccio, i significati che produco. Io come tutti gli altri abitanti di questo tempo. Io come te, come il mio vicino, la tabaccaia, gli assassini, i geni della fisica, le veline. La vita, del resto, è un risveglio dal vuoto, in un barattolo di significati che fluttua nell’incomprensibile e che, come unico scenario per praticare l’esistenza, diventa casa, sistema istruttivo, luogo in cui esercitare senso e produrre trasformazione. Un agire per stupore centrato sulla certezza – tutta culturale – che il risveglio di chi arriverà dopo di noi, avverrà nell’identico barattolo, circondato dagli stessi interrogativi sul dove, sul come, sul perché. Abbastanza per decidere che “io” sono tutto, che non si può tacere, digiunare la vita, consegnarsi alla paura.
L’arte può essere denuncia sociale?
Io non ho mai denunciato nulla! Ho cercato di lavorare sempre sulla costruzione libera di processi dialettici attorno a ciò che sentivo urgente. Il mio lavoro, d’artista e di essere umano, è portare domande con la consapevolezza che le risposte, che sono un processo collettivo, possano essere profondamente diverse da quelle che darei io. L’arte, la mia, non è orientata dal furore rivoluzionario ma da un profondo amore per l’idea di democrazia. Forse la più grande utopia che l’uomo abbia mai inseguito.
Quale consideri il tuo lavoro più riuscito?
Sempre il prossimo!